mercoledì 25 aprile 2012

Capitolo 2 - Come difendersi dalle idee preconcette e dai luoghi comuni

Capitolo 2 
Come difendersi dalle idee preconcette e dai luoghi comuni

Questo profilo mi dà l’occasione per trattare un altro aspetto del nostro ragionamento che gioca un ruolo importante e che è venuto il momento di affrontare specificamente. Tutti noi abbiamo dei pregiudizi, o idee preconcette, formatesi cioè su un determinato argomento, anche prima di averlo approfondito. Non è possibile, infatti, arrivare alla maggiore età senza essersi fatti un’idea un po’ su tutti i principali argomenti che fanno parte dello scibile. Tutti noi siamo passati dall’età dei tre anni e abbiamo messo a dura prova – nonostante la dolcezza della vocina che si possiede a quell’età – la pazienza dei nostri genitori inanellando uno dopo l’altro, con sagace indifferenza, in una serie interminabile gli “…e perché?” ai quali spesso i nostri genitori dopo le prime domande saranno stati tentati di non rispondere, ma poi, forse perché genitori, forse perché consapevoli di appartenere alla specie umana – di animali razionali – o in quanto tentati di capire fino a che punto sarebbero stati in grado di rispondere per soddisfare la nostra – in fondo – lecita curiosità, ci hanno risposto, più o meno pazientemente, contribuendo a formare a poco a poco nelle nostre piccole grandi menti quel patrimonio immenso di sapere che l’uomo è venuto accumulando nel corso dei secoli, che si chiama cultura. E così anche noi attraverso quelle domande innocenti – che forse saranno spesso servite ad alimentare più che altro il nostro personale rapporto con l’uno o con l’altro dei nostri genitori – abbiamo via via messo da parte questo bagaglio che poi avremmo messo alla prova nella realtà.
Quando poi siamo stati in grado di leggere – magari ancor prima – ci siamo attardati a sfogliare le pagine di quella grande enciclopedia per ragazzi che i nostri genitori ci avranno acquistato, passando lì ore d’incanto a scoprire la particolarità di quel pesce, così riccamente variopinto o l’armatura di quel guerriero, la strategia di battaglia di quel grande condottiero… Altre volte saranno stati gli stessi fatti della vita che avranno arricchito con l’esperienza, nella maniera più indelebile, il nostro patrimonio culturale.
Oggi sono i giornali che molto spesso, insieme con internet costituiscono un diffuso strumento di cultura, anche se bisogna spulciare qua e là e cogliere fior da fiore – in alcuni casi è difficile perché non si vedono fiori, anzi… (ci si può sempre consolare con De Andrè:n “dai diamanti non nasce niente mentre dalla merda – pardòn - nascono i fior”) – per trarre qualche spunto buono e far accrescere la propria cultura. Chi, seguendo l’enunciato sopra esposto della necessità di attingere a diverse fonti, ha la possibilità di leggere diversi giornali riesce a farsi un’idea abbastanza chiara dei fatti. È divertente – o ridicolo? –  a tal proposito osservare il tentativo di molte testate giornalistiche – anche di grande fama – di accostare opinioni diverse nell’ambito dello stesso giornale che, nello sforzo di dare l’impressione dell’imparzialità o del pluralismo, offrono a ciascun lettore la possibilità di sposare l’una o l’altra delle versioni dei fatti o delle possibili opinioni, come se non esistesse mai la possibilità che ve ne sia una sola. È vero: le persone sono molto diverse fra loro e ci sono quasi sempre punti di vista diversi, ma questa “concorrenza forzata” fra le idee, ripeto, mi sembra risibile perché le idee si fanno concorrenza da sole senza bisogna che necessariamente si cerchi di interpretare le possibili reazioni del pubblico.
Qui tocchiamo un altro tema enorme che è quello della verità, troppo specifico e troppo profondo per poterlo esaurire e soprattutto qui in poche battute. Si sappia tuttavia che il giornalismo moderno, di stampo anglosassone, tende ad accostare idee diverse senza prendere una precisa posizione, sulla falsariga del Pilato più famoso della storia che, invitato a riflettere sulla verità si pose la domanda: “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) dimostrando di trovarsene ben lungi e, anzi, di aver rinunciato a scoprirla. Forse proprio per questo non si rese conto che stava proprio lì, di fronte a lui. Bisogna riconoscere che in quel momento non era facile farsi un’idea così chiara di come stessero le cose, ma chi vuol mettersi alla ricerca della verità non può fermarsi alle apparenze. Il punto, che sarà sviluppato altrove, è evidentemente cruciale (è il caso di dire, letteralmente, per l’esito che avrà per l’interessato il giudizio di Pilato), in quanto è evidente che ben poco su ciò che non si può assodare fin dal principio, diremmo “per principio” o ideologicamente, come ci farebbe pensare il pensiero cosiddetto “debole”, è ricavabile dalle sole apparenze: il resto occorre dedurlo attraverso un sistema di confronti, riflessioni, approfondimenti, insomma, attraverso lo studio. Il pensiero debole che rifiuta l’idea di una verità assoluta e incarna invece il prototipo del pensiero politicamente corretto: “ciascuno è libero di pensare (leggi: credere) quello che vuole purché non rechi danno agli altri”. Detto così il concetto sembrerebbe condivisibile, in realtà nasconde due grossi inganni.
Il primo: la realtà esiste e se la sera lasciamo l’orologio in un posto diverso dal solito non per questo all’indomani lo ritroviamo dove lo lasciamo, sempre solo perché la nostra mente ci porterà a cercarlo lì. Analogamente accade per la verità che in genere la nostra mente non è in grado di esaurire, in quanto limitata, per cui si possono vedere diverse facce della stessa realtà – il cucchiaio che io vedo dalla mia parte convesso per te che sei dall’altra parte è concavo ed abbiamo ragione entrambi – ed è per questo che non conviene assumere posizioni assolute su questioni complesse. Ciò non toglie che ci sono alcune idee fondamentali che occorre porre alla base di qualsiasi dialogo prima di discutere, altrimenti si “galleggia” su un terreno inconsistente che non permette di trovare una base comune ed il confronto corre il rischio di essere totalmente improduttivo. 
Il secondo: a prescindere dalle valutazione delle conseguenze che può essere molto complessa – chi se ne occupa? – dire che “l’importante è non recare danno agli altri” innesta una morale della conseguenza del tutto arbitraria e che trascura la bontà dell’azione singola separandola artificialmente dal suo effetto, che tenderebbe (in caso di valutazione positiva dell’esito) a giustificare ciò che in sé può essere negativo. È l’etica del “Principe” di Machiavelli – “il fine giustifica i mezzi” – sulla quale non ci si può trovare d’accordo, pena il disordine morale diffuso, che è quello che troviamo spesso in giro oggi.
Dicevamo che fonte per noi di notizie sono i giornali, quindi, e la radio, mentre – ahimè – le tv sono parecchio indietro. Costrette dalla potenza del mezzo – con la sua forza dell’immagine e la sua invasività dell’ambiente domestico – a macinare denaro, non pubblicano niente – o quasi: qualcosa si deve pur dire – che non faccia spettacolo: anche la madre che ha perso i suoi figli, con le sue lacrime o la ragazza violentata dallo zio deve far spettacolo e allora si invitano esperti che ci dicono cosa può scatenare la furia omicida… e così, solleticando tutto quello che c’è di più morboso nella natura umana, senza scordarsi di fare qualche riferimento moralistico, siamo a posto: avremo l’audience. Tali argomenti che per la loro delicatezza dovrebbero essere presi e trattati con le pinze e nelle sedi opportune, in tv vengono sbandierati con violenta nonchalance nei modi più disparati: tutto viene sacrificato sull’altare dell’audience. Di per sé la tv non ha colpa: hanno colpa coloro che usano lo strumento in modo improprio riducendola al solo scopo commerciale/finanziario: responsabili, politici, giornalisti e coloro che, per soldi, si prestano a questo gioco. La tv è uno strumento potente che potrebbe fare ancora tanto bene – e in alcuni casi lo fa – ma per “guidarla” bisognerebbe avere la “patente”.
L’idea non è mia: è del compianto giornalista televisivo Federico Scianò – già direttore di Rai Educational - che, di fronte al dilagare di personaggi che fanno uso dei mezzi di comunicazione con o senza la cinica consapevolezza dei danni che uno strumento così potente può produrre, reclamava la necessità di istituire una patente anche per chi si trova alla guida di questo mezzo: i giornalisti, i conduttori, i presentatori televisivi. Il paragone mi sembra possa estendersi anche alla carta stampata. Assistiamo quotidianamente a giornalisti che sbrodolano il loro parere anche quando sono a digiuno d’informazioni, quando sarebbe molto più serio ammetterlo o riservarli ad un momento successivo. Si è mai visto un giornalista dire, come dicevamo prima: “Non ho gli elementi per formulare un giudizio sull’argomento?”. Raro, molto raro. A costui va il nostro plauso (e, se è bravo, la patente di giornalista).
C’è da dire che sui preconcetti crollano in tanti. Ci sono persone – sto pensando anche ad alcune a me molto care – che appena sentono il nome di Berlusconi si trasformano e partono dal presupposto che qualsiasi cosa dica o faccia Berlusconi è certamente sbagliata o immorale. Bersani, capo del principale partito di sinistra fa parte di questi nemici irriducibili del Berlusca: “Bossi, finché stai con Berlusconi puoi dimenticarti il federalismo”, diceva alcuni mesi fa.
È evidente che ci troviamo in un territorio molto lontano dal ragionamento e dalla razionalità. In tale territorio è evidente che i sentimenti di personale avversione finiscono con il falsare la realtà colorandola di tinte che non ha.
Sia chiaro che per me non solo il Cavaliere non è un santo, ma è uno dei principali responsabili del degrado morale del nostro Paese con il bordello – in relazione, ad esempio, al fenomeno del “reality show”: il parlare è esplicito? come definire altrimenti il luogo dove avviene il mercimonio del corpo? – introdotto nelle nostre case con le sue televisioni fin troppo generose nel mostrare parti intime del corpo femminile ad ogni ora, come se fosse la cosa più normale. Ma non credo neppure che sia peggiore dell’ipocrita moralismo che spesso c’è dall’altra parte.
Vorrei toccare adesso un argomento che mi sembra molto attuale: quello degli omosessuali. Vi era, fino a pochi anni fa un pudore – o forse ritrosia – a parlare dell’argomento. Da parte loro c’era il dramma di non essere capiti, accettati o addirittura di essere maltrattati. Oggi si è giunti ad un miglioramento per quanto attiene alla loro accoglienza nella società, ma c’è qualcosa che mi lascia molto perplesso. Devo ammettere di aver studiato poco l’argomento, che per me rimane uno dei misteri della nostra esistenza: com’è possibile – per loro – concepire la loro esistenza al di fuori del rapporto vitale, genitoriale, procreativo? Di certo è un problema e non mi aiuta l’atteggiamento isterico di molti di loro che oggi si stracciano le vesti se qualcuno osa affermare che la loro è una malattia, quando sembra che in molti casi sia proprio così: pare che spesso ci sia alla base la mancanza di identificazione con la figura del genitore del proprio sesso, spesso assente in famiglia o perché separato o perché eccessivamente impegnato sul lavoro.
Parlare di questo oggi rischia di far scoppiare bombe atomiche. Dopo un lungo periodo vissuto in clandestinità sembra che oggi essi vogliano rivendicare il loro “orgoglio”. Di che? Di essere gay. Pensa un po’! Già di per sé la cosa è strana e sopra le righe. Se fossero davvero come gli altri non ci sarebbe nessun bisogno di rivendicare niente. Mi ha colpito molto la levata di scudi avvenuta in occasione dell’uscita della canzone: Luca era gay di Povia che a me sembra un artista vero, brillante e delicato, coraggioso, anche se di certo politicamente molto scorretto. Personalmente lo preferivo nei bambini che fanno “oh” (canzone poetica, geniale) o “Vorrei avere il becco”, ma il cantante merita complimenti per il coraggio e la sua per me indubbia volontà di chiarezza.
A me sembra che sarebbe utile a loro, come a tutti, una rivalutazione di una virtù a tal punto vituperata da essere oggi sinonimo di povero, di modesto, nel senso deteriore del termine. Eppure c’è tanta grandezza in queste parole! Nella cultura cristiana sono considerate virtù, mentre nella cultura dominante, che non è più cristiana, anche se le sue radici lo sono, sono adatte a gente di “serie B”. Si tratta della virtù della umiltà.
È questa la virtù che permette di avere un’equilibrata valutazione di se stessi, che non ci fa sentire necessariamente superiore agli altri, ma richiede un atteggiamento di disponibilità e di ascolto. Che significa capacità di servizio e di sottomissione. Capacità di guardare in faccia la realtà su se stessi e sugli altri. Richiede quindi coraggio, fortezza nel riconoscere i propri limiti senza volerli nascondere. In sostanza richiede grandezza. Ecco chi è veramente grande: chi non teme di apparire piccolo e sa dare senza attendere niente in cambio, sa aspettare. L’affermazione della verità, della sostanza più che della forma, il frutto del proprio lavoro onesto, nascosto e silenzioso. Tutte qualità che non solo sono poco apprezzate dal prototipo dell’essere vincente, ma arrivano ad essere proprio disprezzate. Naturalmente mi rendo conto che migliorare in questa virtù è necessario anche a me.
Provo un po’ d’impressione ad avere vicina una persona omosessuale – so che anche questo non si può dire e mi dispiace, ma devo dire le cose come stanno, non posso farci nulla, anche se cerco di non manifestare all’esterno il mio disagio – anche se naturalmente sono pronto ad ascoltarla e a comprendere le sue richieste, ad apprezzare le sue capacità, che non raramente in campo artistico sono straordinarie (si pensi a Elton John, Freddy Mercury, George Michael, in campo musicale, per non parlare della moda dove il “diverso” orientamento sessuale può costituire una “qualità”), e in generale la sua capacità di contribuire al bene comune. Provo fastidio, anche se lo capisco, quando in qualche modo uno di loro – o diversi di loro congiuntamente – prova ad “uscire fuori” e a voler in qualche modo farsi accettare come “normali” con esternazioni, marce ed altre manifestazioni eclatanti. È uno stile che non condivido, che non mi sembra opportuno, anche se ovviamente lo rispetto e mi sento solidale con loro, per le maggiori difficoltà che la loro situazione comporta. Ripeto: non deve essere semplice capire il proprio ruolo quando si è “diversi” ed è sicuramente da aborrire il comportamento di chi tende a deriderli o a far pesare loro la diversità, quando addirittura non si arriva alla violenza. Mi sembra che la delicatezza del tema richieda un trattamento diverso dalle manifestazioni folkloristiche che avvengono nelle grandi città. Ritengo sul piano personale di dover imparare a convivere con le persone “diverse”, soprattutto quando questa diversità non sia una vera e propria malattia. In tal caso occorre curarsi né più e né meno come per le altre forme di patologia. Si può forse negare che i casi a cui alludevo prima – di assenza della figura paterna o materna o la loro inadeguatezza  – non siano delle storture create dal disagio di vivere con un genitore solo? Perché allora tanto accanimento da parte del mondo omosessuale per far sentire normale una situazione che non lo è? Per far sentire diversa e contenta – di più: orgogliosa – una persona che forse non lo è?
I recenti funerali di Lucio Dalla sottolineano da una parte lo stile del grande artista scomparso, che personalmente apprezzo, quello della discrezione sulla sua omosessualità, di non sbandierare nulla, mentre dall’altra, a mio avviso, è tristemente intollerante l’intervento di Lucia Annunziata, che taccia d’ipocrisia la Chiesa per aver consentito il funerale religioso ma senza cantare le sue canzoni, secondo lei proprio perché Dalla non aveva fatto “outing”, non si era dichiarato omosessuale. Triste e fuori luogo, in un momento in cui bisognerebbe fare silenzio.
Ritengo invece del tutto aberrante il matrimonio gay e l’adozione di figli da parte di una coppia omosessuale (si pensi ancora a Elton John e al suo partner). È evidente che il bambino crescerà con qualche scompenso e per quelli che si trovano già in questa condizione mi auguro che il Padreterno voglia rimediare a questa protesi antinaturale. Da parte nostra però non possiamo limitarci a dire:
“Io la penso come te ma non si possono costringere altri a fare la stessa cosa”
e il bambino? Vogliamo scherzare? Ma ci rendiamo conto o no che cadiamo in un luogo comune grande come una casa e in omaggio al “sentire moderno” perdiamo il riferimento ad una legge morale superiore? Quella di sant’Agostino, di san Tommaso, ma anche di Kant, di Hegel, di Edith Stein? A forza di ragionare in maniera “aperta” e “moderna” oggi i cinquantenni e i sessantenni si stanno rendendo conto che il proprio figlio non andava lasciato libero di fare scelte che ancora non era pronto ad affrontare e che la loro “apertura” nascondeva inesperienza e, soprattutto, non era la cosa migliore per il figlio. Sono pronto ad accogliere l’opinione contraria purché sia adeguatamente argomentata. A casa mia – sono il quarto di sette figli – mi prendevano in giro perché nelle discussioni a un certo punto inchiodavo l’interlocutore con la domanda: “lo puoi dimostrare?”, che per me effettivamente corrispondeva ad un’esigenza profonda, ma che alla prima occasione ovviamente mi si sarebbe ritorta contro, per cui l’allenamento al ragionamento per me è stato una questione di sopravvivenza.
La morale non si fa per alzata di mano e vi sono principi etici irrinunciabili sui quali non esiste negoziazione: non ci si mette d’accordo… E se domani il parlamento o addirittura un referendum popolare decidesse di rendere lecito l’omicidio? Perdonate il paradosso che risulta chiaro a tutti quelli che ritengono di avere una morale da seguire, ma il giuspositivismo ha invaso la cultura per cui occorre anche in questo caso correre ai ripari e parlare chiaro.

Roberto Saviano in “Gomorra” ci ha portato a conoscenza del “codice etico” della camorra, che ci dimostra che esistono ambiti nei quali un omicidio non solo non è ritenuto niente di grave, ma è addirittura una dimostrazione di forza, di coraggio, di virilità. A parte l’evidente forzatura della coscienza che deve essere accaduta in quest’ambito – sembra che per favorire il sangue freddo dei killer si insegni loro a uccidere prima i conigli – devo ammettere che non condivido l’attardarsi dell’autore in certi particolari macabri e la denuncia senza un filo di speranza che scaturisce dai suoi scritti, anche se ritengo la sua opera di documentazione un contributo importante per combattere il cancro della camorra. Scrivo anch’io da Napoli e devo dire che ritengo ancora più costruttiva l’opera dell’editore Rosario Bianco che con la rivista “L’Espresso napoletano” veicola i mille messaggi positivi che la città partenopea è in grado di esprimere in termini di cultura, di arte, di vita.
Oggi una certa parte “illuminata” di questo tipo di pensiero è riuscita ad aprire un varco nel pensiero comune proprio attraverso la punta del luogo comune sopra accennato anche in una materia in cui fino a ieri in Italia non c’era stata via d’ingresso: il diritto alla vita. Prima attraverso l’aborto, poi attraverso l’eutanasia, il fronte anti-life – radicali in testa con Pannella e Bonino, per esplicite dichiarazioni e per esempio di vita, evidentemente portatori di una cultura di morte – ha ottenuto i suoi successi, con la sola eccezione del referendum sulla fecondazione artificiale.
Il 9 febbraio 2009 si spegneva Eluana Englaro, la giovane donna alla quale, dopo 17 anni di stato vegetativo seguito ad un grave incidente d’auto, è stata sospesa l’alimentazione. Era idratata e alimentata con sondino naso-gastrico con la cura amorevole di alcune suore che l’avevano assistita per tutto quel tempo e il padre è riuscito prima ad ottenere una sentenza del tribunale in cui si autorizzava a interrompere l’idratazione e l’alimentazione “artificiali” poi a ottenere che la figlia fosse affidata non a delle suore ma ad un medico consenziente che ha accettato “umanamente” di togliere quel sondino. Il caso è stato sotto gli occhi di tutti perché il signor Englaro, su incitazione dei radicali, ha voluto porre il caso all’attenzione pubblica come una battaglia per la conquista di un diritto. Oggi egli chiede il silenzio (nel suo libro “Eluana, la libertà e la vita”, Rizzoli), ma devo dire che, dopo aver armato tutto questo processo mediatico, il suo atteggiamento non mi sembra molto coerente. Questo per quanto riguarda il piano razionale. Per quanto attiene a quello umano, che supera lo stretto ambito della ragione, ripeto, massima solidarietà a un uomo che ha sofferto molto. Il Presidente della Repubblica è intervenuto per respingere un’iniziativa del governo in cui si chiedeva di impedire quest’atto scellerato.
Proprio in quei giorni gli scrivevo:
“stiamo assistendo in questi giorni ad una tristissima vicenda familiare in cui un padre, annientato da una lunghissima malattia della figlia in stato vegetativo da 17 anni sta facendo di tutto perché le sia tolta definitivamente la vita. A proposito di stato vegetativo, sono illuminanti gli interventi del Sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella e del Responsabile del Centro Nazionale Trapianti del Ministero del Welfare, Alessandro Nanni Costa, riportati nell’articolo del Corriere di ieri di Margherita de Bac: “Lo stato vegetativo non è mai irreversibile “ -. Dico “tolta” perché di questo si tratta: la giovane donna è viva, sennò non si sarebbe armato tutto questo chiasso mediatico. Ieri per strada sentivo un vecchio che si lamentava: “Nun senti cchiù nien’altr’ ‘aa televisione: Eluana, Eluana, Elua…” Si può pure capire. Tuttavia come dare torto ai telegiornali se in questo momento una storia simile tiene banco? Si sta dando “ex lege” la possibilità di togliere la vita ad una giovane donna… con tanto di Presidente della Repubblica che, paladino delle istituzioni, ne sancisce la liceità…! Dico anche “definitivamente” perché non c’è dubbio che il coma pur sapendo che non è morte, alla morte assomiglia. Di qui il coro di persone che affermano: “Non è vita questa”. Tuttavia bisogna distinguere – è necessario, per non cadere in un errore fatale – la vita dalla morte e difendere la vita anche, come dice il Pontefice, e forse soprattutto nel suo stato più debole. Ahimè, quello che stiamo facendo, tutti anche chi come me non è d’accordo, ma assiste inerme alla scena di quanto sta avvenendo, ha il sapore di un congedo dalla vita e non solo quella di Eluana, ma di tutti noi. Con Eluana in questo momento stiamo per morire tutti. In particolare coloro che decidono di sottrarle l’alimentazione, ma anche noialtri che stiamo lì a guardare e non interveniamo. Per chi decide di uccidere, giacché, con tutte le attenuanti del caso, si tratta di questo, deve esserci comprensione, ma anche preoccupazione perché queste persone sono dannose non solo agli altri ma anche a se stesse. Hanno perso il gusto della vita o lo trovano solo in certe condizioni: sole, mare, salute… Se tali condizioni finiscono.. zac! Uccidono. Se stessi prima e gli altri poi. Il quadro è aggravato dal colpo di mano della Magistratura che ha emesso una sentenza definitiva “contra legem” – la legge non prevede in Italia una sottrazione del cibo e dell’idratazione ma solo delle cure e con una persona consenziente: né l’una né l’altra condizione sono rispettate ma solo una presunzione di volontà – contestata in questi giorni da un testimone, Pietro Crisafulli, che ha sentito dire al Signor Englaro che questa volontà non c’era - da parte della persona interessata. Tutto questo sta andando incredibilmente avanti sotto gli occhi di tutti e non sappiamo, non vediamo il modo di reagire se anche il Capo dello Stato si rammarica, ma impedisce all’acqua e al cibo di arrivare a Eluana. Siamo nel paese dei morti ammazzati e non solo perché si uccide di mafia e o di camorra, ma perché non siamo più contenti della vita nel suo significato più nobile e al tempo stesso più vero. La vita è anche sofferenza, dolore, fatica, sconfitta, croce. Buttiamo via i fiori appassiti o quelli che non ci sembrano sufficientemente belli. Ci stiamo uccidendo da soli, a poco a poco e neppure tanto dolcemente. Con Eluana sta morendo una parte di noi e quel che è grave è che lo stiamo facendo volontariamente.
Andare via: questo è il mio desiderio di fronte a tanto squallore, anche se è complicato, soprattutto per chi è grande ed ha delle responsabilità. Ma se avessi un figlio non lo tratterrei, perché un Paese che smette di difendere la vita – il calo della natalità è un altro dato certo – è un Paese senza futuro. No, caro Presidente, non posso esserle solidale come Lei si aspetta, perché pur comprendendo la difficoltà del momento, occorre un coraggio molto grande per andar contro a tutto quello che una parte dell’opinione pubblica e la magistratura hanno montato, non è possibile sottrarla alle Sue responsabilità che in questo momento ci sono e sono pesanti. Mi lasci dire, con animo affranto, che mi sta deludendo, perché, al di là delle convinzioni profonde che possono essere diverse mi aspettavo una maggiore umanità da parte Sua. Invece decide di seguire il “Ius quia iussum” piuttosto che lo “Ius quia iustum” e da questo non può che scaturire una società meno umana.”
Egli mi rispose che comprendeva le mie ragioni come quelle di molti altri che la pensavano come me e che gli avevano scritto in quei giorni, ma che sull’argomento vi erano idee contrarie e che si sarebbe dovuto attendere il risultato del dibattito parlamentare. Con tutto il rispetto per il Presidente il suo atteggiamento in quell’occasione mi è apparso al di sotto dell’idea che avevo di lui, in quanto mi è sembrato da una parte sintomatico della deriva relativistica giunta fino al Quirinale e dall’altra che il capo dello Stato in quel momento non si facesse garante dello stesso dettato costituzionale che è evidentemente per la tutela della vita (art. 2).
“La Repubblica tutela i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”
Vi è un ambito nella nostra coscienza dove nessun altro, tranne ciascuno di noi, può entrare, lo abbiamo detto. Per questo facciamo salve le intenzioni di Beppino Englaro, tanto più perché sottoposto ad un logorio incredibile, che non deve aver giovato alla sua lucidità. Ma pensare di poter affidare ad una frase sfuggita ad una figlia minorenne – quando l’avrebbe pronunciata Eluana aveva 17 anni – una sentenza di un tribunale che avrebbe deciso della sua vita è argomento assai debole e, dal momento che è stato ritenuto fondante, ha dato luogo ad una nefandezza che fa pensare ad un esercizio manipolatorio di un caso molto doloroso. È penoso pensare che a questo si siano più o meno consapevolmente prestate la massima carica istituzionale e la magistratura del nostro Paese.
È stato singolare, inoltre, che nessuno in quei giorni abbia fatto presente che un anno e mezzo prima si leggeva su Repubblica il caso di quel polacco ritornato alla vita normale dopo 19 anni di coma:

Un ferroviere di 65 anni, dato per spacciato, è tornato alla vita ricordava Jaruzelsky, Wojtyla, Solidarnosc e la crisi economica

Jan Grzebsky
VARSAVIA - Un coma lungo diciannove anni, poi l'inaspettato risveglio. E la sorpresa: il comunismo non c'è più, la Polonia è un Paese democratico e l'economia di mercato è in piena espansione. Se non fosse una storia vera, quella accaduta a Jan Grzebsky, ferroviere polacco di 65 anni, sarebbe il soggetto dal quale è stato tratto il film Goodbye Lenin. Invece, accade questo. Precipitato nel 1988 - quando la Polonia era ancora al di là della cortina di ferro - in uno stato di totale incoscienza per un trauma cranico in seguito a un incidente di lavoro, Grzebsky era stato giudicato dai medici non guaribile. Anzi, non lasciando alcuna speranza ai suoi familiari, avevano decretato che l'uomo avrebbe potuto vivere in stato di coma non più di altri due o tre anni. Poi la morte.

Tuttavia, la moglie Gertruda ha sempre creduto al suo risveglio. "E' stata lei a salvarmi, non lo dimenticherò mai" ha detto lo sconcertato ma felice Jan all'emittente Tvn24. Il medico dell'uomo, Boguslaw Poniatowski, ha raccontato che "per 19 anni la moglie di Jan ha svolto, da sola, il lavoro di un esperto team di infermieri, cambiando la posizione del paziente in coma ogni ora per evitare il formarsi di piaghe da decubito" e prendendosi cura di lui amorevolmente. Ma ciò che ha davvero lasciato senza fiato il ferroviere Grzebsky, quando il 12 aprile si è finalmente svegliato, è stato non trovare più la Polonia del generale Woiciech Jaruzelsky, di Papa Giovanni Paolo II, di Solidarnosc e di Lech Walesa, degli scioperi di Danzica e del Patto di Varsavia. 

"Quando sono entrato in coma - ha raccontato l'uomo - negli scaffali dei negozi di Varsavia si potevano trovare solo tè e aceto, la carne era razionata e ovunque si snodavano code per la benzina": la descrizione di un Paese al collasso, in piena e irreversibile crisi politica. "Ora, vedo per strada persone con il cellulare, e l'abbondanza di merce che trovo nei negozi mi fa girare la testa".

In 19 anni Grzebsky ha attraversato un tunnel durato il tempo di una rivoluzione incruenta, durante il quale i suoi quattro figli si sono sposati e sono nati ben 11 nipoti. E lui ha sempre avuto accanto i suoi familiari: ha detto che, nella nebbia del coma, si è ricordato che moglie e figli erano spesso riuniti al suo capezzale nel tentativo di comunicare con lui. "Durante questi anni ho sentito ciò che gli altri mi dicevano ma non ero in grado di rispondere, è stato terribile". Ora è vivo, e può raccontarla: la storia dell'uomo che è passato, dormendo, dal regime di Jaruzelski all'ossessione della "decomunistizzazione" dei gemelli Kaczynski.

(2 giugno 2007)

Sorprendente, no? Eppure, guarda caso, in quel momento non se ne è parlato.
Torno un attimo, come promesso, sull’aggettivo “strumentale” poc’anzi utilizzato. L’aggettivo echeggiava già negli anni ’70 in un certo ambiente di sinistra, figlio del ’68, dove era evidente che non vi fosse alcun problema a strumentalizzare qualsiasi cosa pur di ottenere uno scopo: era “il fine giustifica i mezzi” del principe di Machiavelli, insomma. Ora dal momento che invece ciò ripugna al senso morale comune (che richiede, lo vedevamo, la bontà dell’oggetto, del fine e della circostanza di un’azione) questo non va bene e deve mettere sull’avviso chi, come me e come te, lettore, vuol essere autore del proprio ragionamento autonomo. C’è gente – e neppure poca – che non si fa scrupolo di manipolare la verità pur di giungere al suo scopo. E siccome tale categoria di persone è normalmente piuttosto refrattaria alle osservazioni altrui, sollecitata, dirà: “non accetto lezioni di morale da parte di nessuno” precludendosi così sia la possibilità di dialogare che, eventualmente, quella di ammettere il proprio errore e di vivere in maniera autentica. Eppure chi sta a capo delle grandi aziende sa che non è possibile guidarle senza che vi sia nel fondo o in superficie – dipende dalle scelte di ciascuno – un’etica ed una finalità sociale di tutto ciò che produce. Questo è ovvio, dal momento che ciascuna impresa interagisce con la società e ad essa deve il suo sviluppo, salvo poi a “strumentalizzare” l’etica come un grimaldello quando questa non è altro che una verniciatura molto esteriore e non permea realmente l’azienda nei suoi aspetti costitutivi.

Parlare ad esempio dei preti pedofili per contrastare la Chiesa è, evidentemente, strumentale, nel senso che i problemi ci sono e non vanno nascosti, ma non possono cancellare il bene che la stragrande maggioranza di sacerdoti continua a seminare in tutto il mondo. L’argomento è evidentemente strumentale. Non si riesce in queste poche pagine a esaurire un tema così complesso e delicato, ma forse si riesce a dare qualche spunto e a smascherare molte delle trappole di chi è tendenzioso e strumentale nell’uso delle informazioni. La tecnica della strumentalizzazione va normalmente congiunta a quella della de-contestualizzazione di cui già si è detto. Si prende una frase, la isola dal contesto e la si utilizza per sostenere ed affermare una propria opinione anche se magari si cela quella parte di verità che non conviene ai propri scopi.
Ma torniamo alle idee preconcette, quelle, dicevamo, che non sono frutto di uno studio specifico. Per avere la possibilità di ragionare bene con la propria testa occorre la capacità di ascolto, di studio, occorre uscire dalla comodità del guscio delle proprie idee preconcette.
Per fare questo è opportuno chiedersi frequentemente:
“Qual è la mia idea sull’argomento?”
“Ho letto qualche articolo o libro di posizione diversa dalla mia?”
“Come la pensa Tizio o Caia su questo?”
e agire di conseguenza.
Un altro fantastico strumento di cultura è, ovviamente, il libro, ma quello davvero buono, in grado di accrescere realmente il nostro bagaglio culturale e di farci crescere, è davvero poco diffuso o può contare poco, molto spesso, sulla potenza dei mass media, che oggi tendono a proporre ciò che si può vendere più facilmente: altro elemento che gioca a sfavore della costruzione di un giudizio autonomo. Nell’era di internet è sempre meno la gente – i giovani in particolare – che legge libri. Eppure ce ne sono tanti buoni in giro, ma si pubblica ancor più ciarpame, per ragioni per lo più commerciali – ditemi un solo autore di successo nella narrativa che non alluda esplicitamente alle questioni “dalla cintola in giù”: avrete le vostre difficoltà! – per cui in mezzo a tanto sfascio varrebbe la pena di avere una guida, un consiglio da parte di un esperto… “Ma questo – potrebbe chiedere qualcuno – non è in palese contraddizione con l’obiettivo di questo libro?” No. Non lo è perché chiedere consiglio non significa dare il proprio cervello all’ammasso, tutt’altro. Significa porre le basi per un pensiero meglio ponderato sulla base dell’esperienza e del parere altrui. Nessuno di noi è un essere isolato: attingere all’esperienza altrui è fondamentale ed è ben diverso dal “lo fanno tutti” che può dire chi pensa di attingere all’esperienza altrui e invece sta solo cercando di evitare l’impegno che comporta la ricerca, il confronto, il ragionamento ed il proprio giudizio. Eh no! “Lo fanno tutti” – ammesso che sia vero – non basta a legittimare un comportamento: questo è un luogo comune ed è un abdicare alla propria coscienza in nome delle scelte altrui, anche se magari diffuse.
Allora siccome in classe tutti fumano lo spinello lo fumo anch’io? Ricordo che in quinto ginnasio al Liceo Mameli di Roma diciotto persone su ventiquattro in classe mia furono invitate ad una festa dove si fumavano spinelli. Ed era solo il 1975.
Bisogna esaminare caso per caso e vedere se quella determinata scelta è giusta per l’altro… perché potrebbe non essere giusta per noi. Oppure potrebbe esserlo, ma non si può saltare a piè pari la raccolta degli elementi del giudizio, il confronto con il parere degli altri, il confronto con le altre situazioni e, alla fine, la propria scelta!
Specialmente nella società mass-mediatica di oggi che spesso non fa altro che bombardarti di informazioni – spesso per ragioni commerciali – che diventa difficile organizzare e gerarchizzare. La tecnologia ha potenziato talmente la capacità di trasmettere informazioni che se non si pongono dei “filtri”, come, ad esempio, con le email, si rischia di rimanere annegati nel mare magnum mediatico. Solo che non sempre si sanno adottare gli strumenti. Parlo del televisore, che in casa rischia di farla da padrone, o di internet che è un potentissimo mezzo di comunicazione, ma può anche essere pericoloso e molto se non si usa con piena consapevolezza. Se non altro rischia di far perdere un mucchio di tempo.
A tal proposito prima di accingerci a usare internet ci siamo chiesti:
·         perché sto per utilizzare questo strumento?
·         ho chiaro il mio obiettivo?
·         mi è chiaro quanto tempo posso permettermi di dedicare adesso a questo
Se non ci si pone queste domande con consapevolezza si rischia di entrare in balia del mezzo e non sono pochi i casi di persone che sono oggi web addicted, hanno cioè una forma di dipendenza dalla rete sia per il gioco, che per il sesso, che per il trading finanziario. Consiglio di guardare questo breve filmato e di sottoporsi all’“Internet Addiction Test” (ahimè anche questo è in inglese) del sito NetAddiction.com, per valutare la propria Internet dipendenza:
Prevenire è sempre meglio che curare e se questo è necessario si tenga presente che dal novembre 2009 all'Ospedale Policlinico Il Gemelli di Roma è stato aperto il primo ambulatorio ospedaliero italiano specializzato nella dipendenza da Internet. Come si può osservare il fenomeno è molto serio e non va sottovalutato. Ad esempio, se ci si dovesse accorgere di essere internet dipendente – da soli o utilizzando il test sopra citato - occorre parlarne e farsi aiutare. Già fare questo è mettersi sulla strada di uscita dal problema, anche se poi occorre mettersi d’impegno, come in ogni cosa.

Conosco una bella coppia formatasi grazie ad internet, ma anche altre che per internet si sono separate. È ovvio che non si può attribuire tutti i meriti e le colpe al mezzo, ma non c’è dubbio che un media non opportunamente utilizzato può essere una mina vagante – quante informazioni mettiamo su Facebook senza sapere a chi vanno a finire! – e, come vedi, siamo tornati di nuovo all’opportunità della “patente” mediatica di Scianò.

Nessun commento:

Posta un commento

Riflessioni da quarantena

me, dopo 54 giorni di "quarantena" In questi giorni di forzata clausura, quando arrivano i momenti difficili in cui ti f...