sabato 23 agosto 2014

Bella la musica, a volte bellissima, meravigliosa! Ma che non ci tolga...

... Il piacere di un buon libro · 26 giugno 2014
Pubblichiamo un articolo apparso nella rubrica «Altre storie» del «Messaggero di sant’Antonio» di giugno.
Forse non viviamo una vita vera, ma siamo protagonisti di un film: questo sembra essere il messaggio che ci lanciano le colonne sonore che — volenti o nolenti — accompagnano le nostre vite, proprio come succede ai personaggi dei film.
Ormai un sottofondo musicale è previsto praticamente dovunque: bar, ristoranti, negozi e perfino nei supermercati — pare che così la gente compri di più — e talvolta anche nelle stazioni o negli aeroporti. Naturalmente le musiche sono differenti: possiamo sentirci immersi in ritmi melodici napoletani in una pizzeria, in un’atmosfera jazz se il bar dove entriamo è sofisticato; in un clima americano melodico — magari con Frank Sinatra — in un ristorante, come se ogni cena fosse l’occasione di affascinare l’anima gemella. Nei negozi di jeans prevale il rock o il genere metal; in quelli vintage canzoni buffe degli anni Trenta; se i tavolini di un caffè sono all’aperto, musiche da operetta possono rievocare i café chantant; nei musei, soffusa nello sfondo, classica. Perfino nelle chiese, in quelle antiche e artisticamente belle, quelle dove si entra non solo per pregare, ma anche per ammirare, ormai è prevista una colonna sonora: naturalmente si tratta di musica sacra, a volume basso, ma comunque tale da rompere il silenzio. Forse in quest’ultimo caso l’intenzione è buona: è un modo per far capire ai turisti che si trovano in un luogo sacro, che non possono parlare ad alta voce, far rumore. È un modo di generare rispetto, di suscitare sentimenti di devozione.
In ogni caso queste colonne sonore colorano la nostra vita di atmosfere che magari in quel momento sono molto lontane dal nostro stato d’animo, influenzano — qualche volta, bisogna ammetterlo, in modo positivo — il nostro umore. Ma creano anche sensazioni bizzarre e fuori luogo: come fossimo sempre, a ogni età e in ogni occasione, innamorati e sospirosi, o in altri casi, ribelli e scontenti. E poi rendono difficili i contatti umani, perché per parlare dobbiamo alzare la voce, che perde le inflessioni che vorremmo darle: i messaggi si fanno brevi e perentori, specie se il loro contenuto è in contrasto con il clima musicale imposto. Quante volte, in un ristorante, un gruppo di persone che si incontra per chiacchierare viene indotto a rinunciare a qualsiasi discorso un po’ lungo e complesso dalla musica che imperversa e rende difficile ogni scambio verbale? Perfino un’antica abitudine ben collaudata, come quella di dire «andiamo a prenderci un caffè così ne parliamo» viene annullata dalla colonna sonora che imperversa, impedisce di sentire cosa dice l’altro e, per di più, crea un’atmosfera spesso poco adatta al discorso che si vuole affrontare.
Anche se ci stiamo talmente abituando alla musica che quasi non la ascoltiamo più la musica, e se qualcuno la commenta lo guardiamo stupiti: per noi è solo uno tra i tanti rumori che ci circondano e ci rimbambiscono. Così abbiamo ucciso il silenzio, che non sempre e non solo significa solitudine. Silenzio è anche possibilità di sottrarsi alla banalità quotidiana, di entrare nel profondo di se stessi, nel luogo dove nasce un pensiero che si plasma poi nella parola. L’apice del silenzio ce l’abbiamo nella lettura silenziosa, che permette al lettore solitario di creare con il libro un rapporto esclusivo. Non è un caso che nella nostra società, inquinata da musiche e rumori stia scomparendo l’abitudine alla lettura: soprattutto per i giovani è sempre più difficile trovare concentrazione e silenzio, condizioni indispensabili per la comprensione di un testo. E chi non legge perde molto.
Come ha scritto un grande studioso, Giovanni Pozzi: «Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace».

di Lucetta Scaraffia

sabato 16 agosto 2014

Ragionare con la propria testa non significa seguire SOLO il proprio istinto...

...SVOLTA ANTROPOLOGICA: UN PROBLEMA SU CUI RIFLETTERE

Riporto e commento quanto scrive la prof.ssa SCARAFFIA (Associato di Storia Contemporanea all'Università "la Sapienza" di Roma):

Lucetta Scaraffia
19 luglio alle ore 15.03 ·

L’ultimo numero della rivista francese “le débat” contiene una sezione totalmente dedicata al matrimonio omosessuale, e in particolare al destino dei figli che tali coppie vorrebbero allevare come propri. Aprendo un confronto su questo tema, l’autorevole testata laica francese si propone soprattutto di considerarlo un problema antropologico di ampio significato per la società, e non semplicemente un allargamento dei diritti, come vorrebbero i difensori del “matrimonio per tutti”.

Secondo Paul Thibaud, filosofo che è stato direttore di “Esprit”, questa apertura all’approfondimento costituisce di per sé una novità interessante in un panorama in cui si è cercato in ogni modo di soffocare il dibattito, argomentando che con la nuova legge si trattava solo di riconoscere un cambiamento già avvenuto nella società. Thibaud nega che questo sia vero, perché sostiene che qui non si tratta di “riconoscere” le coppie omosessuali nella loro specificità, ma proprio il contrario: far dimenticare che sono diverse.

E l’assenza di discussione si spiega, sempre secondo l’intellettuale francese, con la totale privatizzazione in cui sono stati confinati sia il matrimonio sia la procreazione; privatizzazione che ha come corollario l’illegittimità di trattarne in un pubblico dibattito. Cancellare il carattere istituzionale della famiglia ha per effetto quello di scegliere una temporalità corta – cioè il contratto, le volontà di oggi, i sentimenti del momento – senza guardare con responsabilità al futuro.

La filosofa Nathalie Heinich sottolinea come, in nome dell’eguaglianza, si sta sottoponendo il regime matrimoniale e lo statuto della filiazione a pesanti trasformazioni, e tutto perché c’è stato uno slittamento del concetto di differenza verso quello di ineguaglianza (e di quello di ineguaglianza verso l’ingiustizia), slittamento che si fonda su una riduzione del concetto di giustizia a quello di eguaglianza. Dimenticando però che i diritti sociali non si fondano sull’eguaglianza, bensì sull’equità. È così che si è arrivati a definire un “diritto al figlio”, diritto inaccettabile perché si basa su una estensione abusiva del valore dell’eguaglianza.

Uno psicanalista, Maurice Berger, prende poi in esame le ricerche che dovrebbero verificare se lo sviluppo dei figli di coppie omosessuali risente della loro condizione, con il risultato di considerare queste coppie poco “attendibili”, quasi tutte molto ideologiche: in sostanza dei bluff. E lo studioso conclude domandandosi come mai, stando così le cose, il principio di precauzione – a cui così spesso si ricorre in tutti gli ambiti – non debba applicarsi anche a questo.

Infine, la psicoterapeuta Catherine Dolto critica severamente ogni forma di gestazione per altri, considerandola una forma di produzione dei bambini che li rende oggetto di una transazione finanziaria: situazione orribile e possibile solo “in un contesto di mercantilizzazione del vivente mai sperimentato fino a oggi”. La sua esperienza di studiosa dell’infanzia la porta a bocciare senza appello la possibilità di affittare l’utero, poiché è ormai ben noto che anche la fase intrauterina è decisiva nel formare la psiche del bambino e nel determinarne il processo di umanizzazione.

Anche Dolto vede in queste trasformazioni un pericolo per il futuro, a cui nessuno vuole rivolgere lo sguardo: “C’è un legame stretto e attivo – conclude la grande psicoterapeuta – fra la maniera in cui una società inquadra la gestazione e la prima fase della vita umana e l’evoluzione che i bambini così trattati faranno subire al quadro sociale. Non prendersi cura seriamente dei nuovi arrivati significa preparare una barbarie futura”.

Ma guarda: qualcuno che nel fronte laico si azzarda a dire "il re è nudo". Complimenti: si tratta di persone coraggiose, dal momento che saranno sottoposte, come tutti i loro predecessori, all'ostracismo dell'intellighenzia laica, che è senz'altro acuta e benpensante ma senza pietà per chi si permette di uscire fuori dal recinto - in cui il belato è comune e politicamente corretto - e dire la propria secondo quello che una volta si chiamava "coscienza" e che oggi rimane troppo spesso inascoltata.

Riflessioni da quarantena

me, dopo 54 giorni di "quarantena" In questi giorni di forzata clausura, quando arrivano i momenti difficili in cui ti f...