... Il piacere di un buon libro · 26 giugno 2014
Pubblichiamo un articolo
apparso nella rubrica «Altre storie» del «Messaggero di sant’Antonio» di
giugno.
Forse non viviamo una vita vera, ma siamo protagonisti di un
film: questo sembra essere il messaggio che ci lanciano le colonne sonore che —
volenti o nolenti — accompagnano le nostre vite, proprio come succede ai
personaggi dei film.
Ormai un sottofondo musicale è previsto praticamente
dovunque: bar, ristoranti, negozi e perfino nei supermercati — pare che così la
gente compri di più — e talvolta anche nelle stazioni o negli aeroporti.
Naturalmente le musiche sono differenti: possiamo sentirci immersi in ritmi
melodici napoletani in una pizzeria, in un’atmosfera jazz se il bar dove
entriamo è sofisticato; in un clima americano melodico — magari con Frank
Sinatra — in un ristorante, come se ogni cena fosse l’occasione di affascinare
l’anima gemella. Nei negozi di jeans prevale il rock o il genere metal; in
quelli vintage canzoni buffe degli anni Trenta; se i tavolini di un caffè sono
all’aperto, musiche da operetta possono rievocare i café chantant; nei musei,
soffusa nello sfondo, classica. Perfino nelle chiese, in quelle antiche e
artisticamente belle, quelle dove si entra non solo per pregare, ma anche per
ammirare, ormai è prevista una colonna sonora: naturalmente si tratta di musica
sacra, a volume basso, ma comunque tale da rompere il silenzio. Forse in
quest’ultimo caso l’intenzione è buona: è un modo per far capire ai turisti che
si trovano in un luogo sacro, che non possono parlare ad alta voce, far rumore.
È un modo di generare rispetto, di suscitare sentimenti di devozione.
In ogni caso queste colonne sonore colorano la nostra vita
di atmosfere che magari in quel momento sono molto lontane dal nostro stato
d’animo, influenzano — qualche volta, bisogna ammetterlo, in modo positivo — il
nostro umore. Ma creano anche sensazioni bizzarre e fuori luogo: come fossimo
sempre, a ogni età e in ogni occasione, innamorati e sospirosi, o in altri
casi, ribelli e scontenti. E poi rendono difficili i contatti umani, perché per
parlare dobbiamo alzare la voce, che perde le inflessioni che vorremmo darle: i
messaggi si fanno brevi e perentori, specie se il loro contenuto è in contrasto
con il clima musicale imposto. Quante volte, in un ristorante, un gruppo di
persone che si incontra per chiacchierare viene indotto a rinunciare a
qualsiasi discorso un po’ lungo e complesso dalla musica che imperversa e rende
difficile ogni scambio verbale? Perfino un’antica abitudine ben collaudata,
come quella di dire «andiamo a prenderci un caffè così ne parliamo» viene
annullata dalla colonna sonora che imperversa, impedisce di sentire cosa dice
l’altro e, per di più, crea un’atmosfera spesso poco adatta al discorso che si
vuole affrontare.
Anche se ci stiamo talmente abituando alla musica che quasi
non la ascoltiamo più la musica, e se qualcuno la commenta lo guardiamo
stupiti: per noi è solo uno tra i tanti rumori che ci circondano e ci
rimbambiscono. Così abbiamo ucciso il silenzio, che non sempre e non solo
significa solitudine. Silenzio è anche possibilità di sottrarsi alla banalità
quotidiana, di entrare nel profondo di se stessi, nel luogo dove nasce un
pensiero che si plasma poi nella parola. L’apice del silenzio ce l’abbiamo
nella lettura silenziosa, che permette al lettore solitario di creare con il
libro un rapporto esclusivo. Non è un caso che nella nostra società, inquinata
da musiche e rumori stia scomparendo l’abitudine alla lettura: soprattutto per
i giovani è sempre più difficile trovare concentrazione e silenzio, condizioni
indispensabili per la comprensione di un testo. E chi non legge perde molto.
Come ha scritto un grande studioso, Giovanni Pozzi: «Amico
discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge
oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace».
di Lucetta Scaraffia
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