Capitolo 3
Sulle spalle dei
giganti
Chiedere consiglio,
dicevamo, significa esercitare la prudenza che ci insegna ad essere
maggiormente padroni di noi stessi e a scegliere gli strumenti più adatti per
raggiungere il nostro scopo (ciò che poi corrisponde alla definizione di questa
virtù). Nella fattispecie, chiedere consiglio – alle persone giuste, è ovvio –
può accrescere di molto gli elementi a nostra disposizione per valutare una
situazione, prendere una decisione, formulare un giudizio. Con la quantità
d’informazioni da cui siamo bersagliati quotidianamente, anzi, direi che
chiedere consiglio sulle proprie letture è assolutamente necessario se non si
vuole, nella migliore delle ipotesi, perdere un mucchio di tempo. Il guaio è
che non sempre cerchiamo o troviamo qualcuno capace di darci questo consiglio e
allora ci lasciamo guidare dalla copertina, o dal titolo di un libro quando non
anche semplicemente dal suo volume… o dal prezzo: il risultato in ordine
all’idea di costruire una propria cultura non può che essere disastroso. Come
mettere insieme mattoni di diversa forgia e in punti sempre diversi della casa
da costruire, senza neppure arrivare a costruire un solo ambiente!
Per
quanto il nostro io si sforzi di stare al centro (cfr. Ugo Borghello, “Liberare
l’amore”, Edizioni Ares), di decidere da solo e quasi di “determinare la
realtà” le informazioni di cui disporremo, quelle che formano parte del
nostro bagaglio culturale, saranno sempre limitate, se non molto limitate. Per
questo dobbiamo fare affidamento a chi ci ha preceduto nel cammino del
pensiero. I filosofi – letteralmente “amici del pensiero” – greci, se
possibile, coloro che hanno posto le basi del pensiero e poi i filosofi
moderni, in particolare Cartesio, Kant e Hegel.
“Gli
uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della
meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà
più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi
sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e
quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione
dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia
riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in
certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose
che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi
dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e
non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono
svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che
necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si
incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi
non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è
evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è
asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo
libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.”
(Aristotele, Metafisica I,2,982b)
Nell’ambito della filosofia, poi, è utile studiare la logica,
l’arte del ragionamento, ciò che permette di confrontare le idee, i fatti e,
date determinate premesse, giungere ad una conclusione pertinente, non
esplicitamente contenuta nelle premesse iniziali.
Fra gli studiosi della filosofia occidentale Aristotele –
nella Grecia, del IV secolo a.C., dove prende le mosse il pensiero filosofico -
si distacca da tutti gli altri per la sua cultura enciclopedica, che
abbracciava allora tutto lo scibile – studiò la biologia, l’arte, la poesia, la
filosofia e la logica - e per la sistematicità del suo
pensiero. Egli pone un fondamento logico sulla base del quale si erge ogni
possibile pensiero: il principio di non contraddizione.
“Una cosa non può essere e non essere nello stesso luogo
e nello stesso tempo”. Su questo
principio si è basato il pensiero filosofico fino al XVII secolo, quando
Cartesio pone le basi di un nuovo modo di pensare che avrebbe portato
successivamente a non accettare la realtà se non evidente e a porre alla base
della realtà il pensiero stesso.
Il rapporto fra il pensiero idealista e quello realista è
mirabilmente espresso dal famoso dipinto di Raffaello “la Scuola di Atene” dove
al centro di un’ampia scena di un sontuoso palazzo in mezzo a tante altre
figure al centro sono rappresentate le due figure di Platone e Aristotele, i
due maggiori filosofi dell’antichità. Mentre l’autore della Repubblica
indica in alto – nel cosiddetto iperuranio, il mondo delle idee – e
nell’induzione la radice del vero, l’Autore dell’Etica invece stende la
mano verso terra esponendo così la sua preferenza per le cose reali e il metodo
deduttivo. Il punto di fuga posto al centro delle due figure starebbe a
indicare che il vero è nella sintesi fra la visione dell’uno e quella
dell’altro filosofo. L’affresco, dipinto fra il 1509 e il 1511 nella Stanza
della Segnatura all’interno dei Palazzi Vaticani, esalta la ricerca razionale
riprendendo i più grandi filosofi, matematici e scienziati fino a quell’epoca.
Nel “cogito ergo sum” (penso dunque sono) di
Cartesio troviamo la generale
riconsiderazione di tutto il sapere sulla base del proprio pensiero.
Nella storia del pensiero il discrimine fra il realismo
aristotelico e l’idealismo è rappresentato dal seguente concetto espresso dal
filosofo francese:
«Il primo era di non prendere mai niente per vero, se non
ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare
accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio
giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così
chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio».
(Cartesio,
"Discorso sul metodo")
Ecco la prima regola del metodo matematico, quella dell’evidenza,
che rappresenta una norma di condotta utile a chi voglia classificare il mondo
dal punto di vista scientifico, ma non a chi voglia entrare in una reazione
vitale con esso. A chi voglia viverlo, conoscerlo ed accoglierlo non può
bastare di accettare tutto e solo ciò che rispetta questo principio. Si può
infatti arrivare ad accogliere ciò che non sia chiaro e distinto perché
in qualche modo ci trascende, ma non comprenderlo e, d’altra parte è
evidente che per comprenderlo, nel senso letterale del termine, dovremmo essere
in qualche modo più grandi o superiori rispetto ad esso. Non ci addentriamo,
adesso, nella profondità delle conseguenze che tale modo di ragionare ha avuto
nel pensiero successivo, ma vale la pena di considerare l’aspetto positivo
nella formazione dell’uomo moderno e del passaggio alla cosiddetta
post-modernità. Qui troviamo la base del pensiero scientifico e della sua
autonomia rispetto ad altre forme di conoscenza che non prevedono le modalità
materiali del misurare, verificare, sperimentare. Al tempo stesso egli sa di
potersi porre come un ente pensante, in grado di conoscere e di valutare la
realtà circostante e di porsi quasi in funzione di giudice sulla stessa, quasi
fosse la sua misura. Mentre però Cartesio pone Dio – che non può ingannare, la
cui esistenza egli ritiene di dimostrare – come garanzia esterna del suo metodo
e del suo ragionamento, egli da luogo ad una deriva idealistico/relativistica
sulla possibilità di costruire la realtà a partire dal pensiero (alla quale era
già arrivato il sofista Protagora quando affermava che “l’uomo è misura di
tutte le cose”). Su questa traccia troviamo anche un grande pensatore
tedesco illuminista – Immanuel Kant - che rispondendo alla provocatoria domanda
del predicatore Zöllner su cosa fosse l’illuminismo affermava:
«L’Illuminismo
è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se
stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la
guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di
essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e
del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un
altro. “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.»
(Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos'è
l'Illuminismo?, 1784)
Fondamentale questo passo nel pensiero dell’uomo, che
prende le distanze da una visione atta ad accettare supinamente ciò che non
viene sottoposto al vaglio – o al tribunale, come diceva Kant – della ragione.
Nello stesso documento poc’anzi citato il filosofo tedesco si scaglia contro
quei tutori che nei confronti dei propri protetti “dopo averli in un primo
tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito
che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da
bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il
pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale
pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla
fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque
spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo”.
Fa osservare giustamente Curi nelle sue interessanti
lezioni tenute all’Università di Padova:
“Si può essere minorenni a 50 anni! Ce ne sono molti.
Condizioni per diventare maggiorenni: avere il coraggio di usare il proprio
intelletto… senza la guida di altri.”
(Umberto Curi, Pensare con la propria testa, ed. Mimesis, Milano
2009).
Da questo punto di vista è opportuno distinguere, con
Kant, “imparare la filosofia” che è l’acquisizione attraverso asserzioni altrui
e “imparare a filosofare” che è, invece, conoscenza mediante il proprio
ragionamento.
Trovo estremamente interessante il rilievo di Kant e
centrale per l’argomento che stiamo trattando. A mio parere deve costituire
materia di riflessione per chiunque, dal momento che ciascuno di noi è chiamato
a ragionare con la propria testa e non può mai demandare ad altri la
responsabilità delle proprie scelte. Un tale tipo di atteggiamento è
esattamente quello contro cui si muove Kant: un atteggiamento di minorità di
chi, rinunciando a ragionare con la propria testa, continua a usare il
“girello” delle idee altrui.
Ancora nel 1786 egli si esprimeva così:
“Pensare da se’ significa cercare in se stessi e cioè
nella propria ragione la pietra ultima di paragone della verità e la massima
che invita a pensare sempre da se’ è l’Aufklärung (l’Illuminismo)”
(Kant, “Che cosa significa orientarsi nel pensiero”, 1786)
È evidente che non a tutti si può chiedere di essere
filosofi – lo stesso Kant si rivolgeva ad un pubblico selezionato come quello
che poteva permettersi di acquistare libri e giornali e di poterli leggere –
tuttavia è possibile pensare che a tutti debba essere dato di formarsi un’idea
sui concetti fondamentali dell’uomo, della famiglia e dell’intera società. In
tale ambito, ciascuno ha il dovere di formarsi idee proprie ed una propria
cultura.
L’importante discrimine indicato da Kant presta tuttavia
il fianco ad un’interpretazione sbrigativa e leggera che vuole tener conto solo
marginalmente della realtà partendo dalla presunta capacità di autogenerarla
attraverso il pensiero stesso (idealismo). In tale tipo di deriva
idealistica anche la considerazione degli altri può a questo punto diventare
marginale: sono utili nella misura che mi permettono di raggiungere i miei
obiettivi personali.
D’altra parte Hegel criticava, senza citarlo, Kant,
quando affermava che non si può pensare se non con la propria testa e che se
con questa vogliamo produrre qualcosa di particolare, di originale, senza
rifarci alle verità storicamente scoperte da altri – l’universale –
probabilmente stiamo semplicemente producendo sciocchezze (si veda il testo,
citato, di Umberto Curi).
“Che brutto quadro è quello in cui si ritrae anche
l’artista” (…) “Essere originali significa produrre qualcosa di
universale”(...) “la smania di pensare con la propria testa consiste in questo:
che ognuno mette fuori più sciocchezze di un altro” (…) “L’infelice prurito
d’insegnare a pensare da se’ e a produrre autonomamente ha messo in ombra
questa verità, come se quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o
qualsiasi altra cosa non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio
pensiero queste determinazioni, ma queste venissero gettate in esso come
pietre”
(Hegel, Introduzione alle “Lezioni sulla storia della filosofia”,
1781).
Nella storia del pensiero lo iato aperto dal pensiero di
Cartesio si è ulteriormente allargato con l’affermazione di Hegel:
“tutto ciò che è
razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”
(G.W.F. Hegel, Lineamenti
di filosofia del diritto, Prefazione)
ma possiamo davvero credere che il filosofo di Stoccarda
volesse fermarsi al pensiero che tutto e solo ciò che è razionale possa essere
reale? In altri termini possiamo ragionevolmente pensare che è reale e vero
tutto ciò e solo tutto ciò che rientra nel nostro ragionamento? E se non vi
rientrasse finirebbe per questo di essere reale? Non è possibile!
Chiesi una volta ad un grand'uomo se credesse davvero che
era razionale solo quello che egli era in grado di capire ed egli mi rispose:“Credi
davvero che sia così stupido?”.
No, neppure noi vogliamo essere così stupidi. Possiamo
dubitare, possiamo dire di non sapere, ma non possiamo autolimitarci alla sfera
razionale che è quella che ci permette di conoscere, di fondare la nostra
conoscenza su in terreno solido, ma non esaurisce il reale. La realtà supera la
ragione (e perfino la fantasia).
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