Per salutare l'inizio dell'inverno posto volentieri quest'articolo di Francesco Lamendola, docente liceale di Storia e Filosofia. Lo trovo di una rara chiarezza e capacità di sintesi. E voi?
Il matrimonio e la famiglia sono sotto attacco, e l’attacco è sferrato da forze occulte e insidiose, che si servono della buona fede di un pubblico manipolato ad arte e ormai abituato a pensare, o piuttosto a credere di pensare, secondo categorie demagogiche preconfezionate: pubblico che si illude di condurre una battaglia di civiltà per i diritti dei “diversi” e, quindi, in teoria, dei più deboli, mentre è in gioco una posta altissima e ben diversa: la sopravvivenza della nostra civiltà, nel senso letterale dell’espressione. Non è “soltanto” la nostra società che si trova in estremo pericolo, sospesa ormai sull’orlo dell’abisso: non soltanto l’insieme pratico dei cittadini, con le loro reciproche relazioni affettive, professionali, culturali; è la nostra stessa civiltà che rischia il tracollo definitivo e irreparabile, vale a dire l’insieme dei nostri valori, delle nostre tradizioni, dei nostri sistemi di pensiero. Dal crollo di una società si può anche risorgere; dal crollo di una civiltà, no. Certo, al posto di essa ne sorgerà una nuova; ma basata su altri principi e su valori profondamente diversi, di cui saranno protagonisti altri soggetti: altri popoli, altre comunità, altre maniere di vedere il mondo e d’intendere il significato della vita. L’arte, la scienza, il senso del bello, il senso del vero, il senso del giusto: tutto verrà ricostruito su nuove basi, su diverse fondamenta. Non è detto che sarà una brutta cosa, anzi, può darsi benissimo che la nuova civiltà sarà migliore dell’antica: ma sarà un cambiamento doloroso. Nessuna civiltà tramonta e scompare in modo indolore; e coloro che vivono quella fase storica pagano sulla loro pelle un prezzo altissimo, senza alcuno sconto e, per lo più, senza un orizzonte di speranza: per loro, il mondo che sta finendo è tutto il mondo. Così l’hanno vissuta i Romani della tarda antichità, quando i templi del paganesimo venivano abbattuti e Roma, la Città Eterna, veniva presa e saccheggiata dai barbari: fu un trauma sconvolgente, senza precedenti. Ora, la nostra civiltà, la civiltà europea, così come si è definita da oltre un millennio e così come noi la conosciamo, la amiamo o forse la detestiamo, ma sempre sentendo, pensando, giudicando dall’interno di essa, dei suoi valori, dei suoi punti di vista, si fonda sulla famiglia; e la famiglia si basa sul matrimonio, inteso come l’unione stabile fra un uomo e una donna, aperta alla procreazione e impostata su un comune progetto di vita e di bene scambievole. Nessuna norma giuridica potrebbe sostituire queste caratteristiche spirituali, né imporle dall’esterno: o ci sono, o non ci sono. Se ci sono, il la famiglia fondata sul matrimonio potrà affrontare le prove più dure e, magari, anche soccombere, ma senza smarrirsi, senza perdere la propria coesione e i propri valori; se non ci sono, nessuna cerimonia e nessun patto legale potranno infonderle quella intima forza che non possiede, e che proviene non solo dall’amore, ma anche dalla fiducia nella fonte inesauribile da cui l’amore umano discende e a cui si rinnova, ma che non appartiene alla dimensione contingente. Il matrimonio, nel mondo antico, era contemporaneamente una cerimonia civile e religiosa; col cristianesimo, l’aspetto religioso divenne predominante, perché nella civiltà cristiana è lo spirituale ad includere il temporale, e non viceversa, così come l’Impero è incluso nella cristianità. Quando sorge l’idea che l’Impero sia una istituzione autonoma e parallela alla Chiesa, il Medioevo è alla fine: Dante la pensa così, ma con lui lo spirito medievale è già tramontato. Per qualche secolo ancora la civiltà europea si ammanta di cristianesimo, mentre sta svuotando quest’ultimo di ogni reale influenza sulla società civile e mentre il potere statale (non dell’Impero, con la sua idea universalistica, ma degli Stati nazionali, ciascuno portatore del proprio particolarismo) erode e distrugge lentamente le prerogative della Chiesa. Con il giurisdizionalismo e con l’Illuminismo, il processo giunge a compimento: cadono anche i veli esteriori, e la proclamata separazione tra sfera civile e sfera religiosa significa, né più né meno, la privatizzazione del fatto religioso e quindi anche del matrimonio religioso. La cerimonia si sdoppia in un rito civile e in un rito religioso; poi, lentamente ma irresistibilmente, il secondo comincia ad essere soppiantato dal primo, o – il che è lo stesso – viene a perdere le sue caratteristiche profonde e specifiche, spirituali, trascendenti, per divenire una copia del rito civile, conservando solo la vernice superficiale di ciò che era stato un tempo. Il matrimonio religioso, secolarizzandosi, perde non solo il suo prestigio, ma anche la sua funzione e la sua ragion d’essere: si riduce allo sfarzo di un giorno, di un’ora; non è più un progetto comune che l’uomo e la donna si impegnano a portare avanti sino alla fine della loro vita, nella buona e nella cattiva sorte. E non è più una promessa fatta davanti a Dio, ma un’occasione di mondanità e un omaggio formale al conformismo e al quieto vivere. Oggi il matrimonio cristiano è ormai quasi scomparso, e, con esso, anche la famiglia è andata profondamente in crisi; ma - sorpresa per i laicisti convinti di esser giunti a coronare i loro sforzi secolari - ecco che anche il matrimonio civile, nel medesimo tempo, sembra aver subito lo stesso logoramento, però in un tempo enormemente più breve. Ora che pochi si sposano in chiesa, e non più con lo spirito religioso d’un tempo (prova ne siano le coppie che si sposano dopo anni di convivenza, e con la sposa in abito bianco, simbolo di purezza, come una vergine), sono ancor meno quelli che decidono di sposarsi in municipio. Sposarsi, e perché mai? Perché sobbarcarsi gli oneri e i sacrifici di una promessa di lunga durata, quando la maggioranza delle persone ha ormai scelto il modello della libera convivenza, ossia delle cosiddette unioni di fatto? Niente promesse, niente impegni, niente figli, a meno che se ne senta il desiderio, magari più tardi, magari quando i genitori sarebbero in età di fare i nonni: la famiglia non è più costruita sul progetto della procreazione, dell’apertura alla vita che nasce, ma sul contratto stipulato fra due individui interessati a stabilire i rispettivi diritti e a garantirsi il massimo della libertà personale. Non è poi così strano se, in questo quadro culturale e spirituale, non solo le unioni di fatto, ma anche le unioni omosessuali ambiscono a ottenere il riconoscimento giuridico dello Stato, mediante l’assoluta equiparazione al matrimonio, o meglio, ottenendo la qualifica di “matrimonio”, punto e basta. I figli si possono sempre adottare; oppure, nel caso di una coppia lesbica, si possono ottenere con l’ausilio della fecondazione eterologa. Curioso fenomeno, ma strano solo in apparenza: mentre l’uomo e la donna sono sempre più restii a sanzionare la reciproca unione mediante il vincolo matrimoniale, le coppie omosessuali si battono ovunque per ottenere la fine della loro pretesa “discriminazione” e per potersi sposare in municipio, e magari anche in Chiesa – come già avviene in alcuni Paesi del Nord Europa. E mentre le coppie eterosessuali sono sempre più esitanti a fare figli, quelle omosessuali sembrano più che mai impazienti di poterne avere. Tutto questo avviene non come effetto, ma come risultato di una lenta, metodica, paziente e poco vistosa campagna culturale preparatoria, portata avanti, negli ultimi decenni, da centinaia e migliaia di film, di romanzi, di concerti, di inchieste, dibattiti, tavole rotonde, salotti televisivi e notizie di cronaca abilmente sfruttate, manipolate, gonfiate o sgonfiate secondo le circostanze, così da creare nell’opinione pubblica l’impressione che vi sia una “emergenza omofoba” e che, per contrastare la persecuzione degli omosessuali, sia indispensabile, nonché urgentissimo, riconoscere loro tutti i diritti del caso, compreso quello di sposarsi e avere o adottare dei figli. Frotte di volonterosi psicologi e psichiatri ci hanno spiegato, dall’alto del loro discutibile sapere, magari dalle colonne di qualche rivista modaiola, che non c’è alcuna differenza sostanziale fra sposarsi con una persona dell’altro sesso, oppure del proprio; che chi la pensa diversamente è un razzista, un sessista, un incorreggibile reazionario; che i bambini crescono altrettanto bene, altrettanto equilibrati e sereni, in un contesto familiare eterosessuale, così come in uno omosessuale; e che gli eventuali complessi o anche solo i disagi, cui sarebbero esposti nel secondo caso, sono soltanto e unicamente il frutto delle nostre paure e dei nostri assurdi e incivili pregiudizi. Di più: in diversi Paesi d’Europa si è deciso, per non offendere la sensibilità dei bambini che vivono con genitori omosessuali, che gli educatori non devono più adoperare l’espressione “bambino” o “bambina”, anzi, non devono proprio adoperare il pronome “lo” o il pronome “la”, riferito ai propri compagni di scuola o d’asilo, ma il neutro. Tutto questo è stato votato e approvato già da alcuni Parlamenti ed è stato presentato all’opinione pubblica come una battaglia di civiltà, incoraggiando nei giovani l’idea che il matrimonio è, semplicemente, la sanzione del legame affettivo che unisce due persone, indipendentemente dal genere sessuale. Tanto, si dice, l’importante è che ci sia l’amore: purché ci sia l’amore, il fatto che a sposarsi siano un uomo e una donna, oppure due uomini o, ancora, due donne, diventa del tutto ininfluente; e lo stesso vale per l’eventuale adozione di figli. Eppure è evidente, se appena si vi pone un minimo di attenzione, che dietro queste pretese “battaglie di civiltà”, e dietro l’apparente ragionevolezza e l’apparente minimalismo di codesti paladini dei “diritti civili”, si cela un progetto di vasta portata, mirante a scardinare il principale puntello della nostra civiltà: la famiglia fondata sul matrimonio e formata da un uomo, una donna e, potenzialmente, dalla prole da essi generata. Infatti, nel matrimonio la posta in gioco è molto più alta di quel che potrebbe apparire di primo acchito, e cioè – come osserva il filosofo Francesco Botturi - l’idea antropologica che qualifica una intera civiltà, la nostra. Ed è altrettanto evidente, aggiungiamo noi, che tale consapevolezza si va offuscando, al punto che molte persone, apparentemente in buona fede, reclamano la fine del “matrimonio tradizionale” in nome di un matrimonio più “aperto”, più “libero”, più “moderno”: un sedicente matrimonio nel quale la nozioni di impegno, di fedeltà, di durata, di assunzione di responsabilità, tendono a passare del tutto in secondo piano, lasciando il posto alla pretesa del massimo vantaggio personale, della massima libertà individuale, del massimo esercizio dei diritti. Esso diventa, così, il luogo istituzionalizzato in cui riceve una sanzione definitiva quell’individualismo egoistico e calcolatore che già in pensatori come John Locke aveva trovato la sua consacrazione filosofica. In questa prospettiva, la società cessa di essere una rete armoniosa di soggetti fondati, a loro volta, su quella società in miniatura, essenziale e insostituibile, che è la famiglia: luogo di affetti, ma anche di maturazione, di educazione ai valori, di preparazione alle responsabilità della vita adulta; e diventa, sempre più – almeno nella propaganda di questi chiassosi paladini dei “nuovi diritti” – la quintessenza e la somma di due egoismi che si studiano a vicenda, si delimitano, si riconoscono e si accordano per ricevere il minimo del disturbo l’uno dal’altro, e il massimo del vantaggio quanto all’esercizio sfrenato della libertà personale, intesa non come libertà di perseguire il bene – quello proprio e quello altrui -, ma come inesausta rincorsa del piacere. Il matrimonio diventa così peggio di una finzione: diventa la contraffazione di quel che esso è realmente, la caricatura orribilmente deformata di ciò che, per secoli e secoli, ha rappresentato per la nostra civiltà; diventa la consacrazione ufficiale dell’edonismo e del narcisismo eretti a sistema e il riconoscimento che nulla vi si deve opporre, in nome di un relativismo etico che si basa sul «perché no?». Un matrimonio, che sia ufficialmente riconosciuto come tale, fra due persone del medesimo sesso: perché no? Un figlio a sessant’anni: perché no? Un bambino adottato da due uomini o da due donne: perché no? Cosa c’è di male? Se esiste l’amore, perché bisognerebbe impedire a queste persone di cercare la felicità? In nome di quale diritto, di quale dovere? Se la vita non è che la ricerca del piacere e se la società e lo Stato ad altro non servono che a garantire tale diritto, mediante una meticolosa e capillare casistica giuridica, si può forse sostenere che tali conseguenze non siano perfettamente coerenti con le premesse? Evidentemente no. Dunque, bisogna avere il coraggio di guardare dritto al cuore del problema, e non lasciarsi distrarre da aspetti del tutto secondari. Per esempio, bisogna avere l’onestà di riconoscere che una cosa è il riconoscimento del diritto alla ricerca della felicità individuale; altra cosa è affermare che questa è l’unica cosa che conta e che tutti gli altri scopi e valori, specialmente di ordine collettivo, devono esserle subordinati. Il relativismo etico si è affermato sfruttando il senso di colpa nei confronti di taluni eccessi di severità da parte della società d’un tempo.
Il matrimonio e la famiglia sono sotto attacco, e l’attacco è sferrato da forze occulte e insidiose, che si servono della buona fede di un pubblico manipolato ad arte e ormai abituato a pensare, o piuttosto a credere di pensare, secondo categorie demagogiche preconfezionate: pubblico che si illude di condurre una battaglia di civiltà per i diritti dei “diversi” e, quindi, in teoria, dei più deboli, mentre è in gioco una posta altissima e ben diversa: la sopravvivenza della nostra civiltà, nel senso letterale dell’espressione. Non è “soltanto” la nostra società che si trova in estremo pericolo, sospesa ormai sull’orlo dell’abisso: non soltanto l’insieme pratico dei cittadini, con le loro reciproche relazioni affettive, professionali, culturali; è la nostra stessa civiltà che rischia il tracollo definitivo e irreparabile, vale a dire l’insieme dei nostri valori, delle nostre tradizioni, dei nostri sistemi di pensiero. Dal crollo di una società si può anche risorgere; dal crollo di una civiltà, no. Certo, al posto di essa ne sorgerà una nuova; ma basata su altri principi e su valori profondamente diversi, di cui saranno protagonisti altri soggetti: altri popoli, altre comunità, altre maniere di vedere il mondo e d’intendere il significato della vita. L’arte, la scienza, il senso del bello, il senso del vero, il senso del giusto: tutto verrà ricostruito su nuove basi, su diverse fondamenta. Non è detto che sarà una brutta cosa, anzi, può darsi benissimo che la nuova civiltà sarà migliore dell’antica: ma sarà un cambiamento doloroso. Nessuna civiltà tramonta e scompare in modo indolore; e coloro che vivono quella fase storica pagano sulla loro pelle un prezzo altissimo, senza alcuno sconto e, per lo più, senza un orizzonte di speranza: per loro, il mondo che sta finendo è tutto il mondo. Così l’hanno vissuta i Romani della tarda antichità, quando i templi del paganesimo venivano abbattuti e Roma, la Città Eterna, veniva presa e saccheggiata dai barbari: fu un trauma sconvolgente, senza precedenti. Ora, la nostra civiltà, la civiltà europea, così come si è definita da oltre un millennio e così come noi la conosciamo, la amiamo o forse la detestiamo, ma sempre sentendo, pensando, giudicando dall’interno di essa, dei suoi valori, dei suoi punti di vista, si fonda sulla famiglia; e la famiglia si basa sul matrimonio, inteso come l’unione stabile fra un uomo e una donna, aperta alla procreazione e impostata su un comune progetto di vita e di bene scambievole. Nessuna norma giuridica potrebbe sostituire queste caratteristiche spirituali, né imporle dall’esterno: o ci sono, o non ci sono. Se ci sono, il la famiglia fondata sul matrimonio potrà affrontare le prove più dure e, magari, anche soccombere, ma senza smarrirsi, senza perdere la propria coesione e i propri valori; se non ci sono, nessuna cerimonia e nessun patto legale potranno infonderle quella intima forza che non possiede, e che proviene non solo dall’amore, ma anche dalla fiducia nella fonte inesauribile da cui l’amore umano discende e a cui si rinnova, ma che non appartiene alla dimensione contingente. Il matrimonio, nel mondo antico, era contemporaneamente una cerimonia civile e religiosa; col cristianesimo, l’aspetto religioso divenne predominante, perché nella civiltà cristiana è lo spirituale ad includere il temporale, e non viceversa, così come l’Impero è incluso nella cristianità. Quando sorge l’idea che l’Impero sia una istituzione autonoma e parallela alla Chiesa, il Medioevo è alla fine: Dante la pensa così, ma con lui lo spirito medievale è già tramontato. Per qualche secolo ancora la civiltà europea si ammanta di cristianesimo, mentre sta svuotando quest’ultimo di ogni reale influenza sulla società civile e mentre il potere statale (non dell’Impero, con la sua idea universalistica, ma degli Stati nazionali, ciascuno portatore del proprio particolarismo) erode e distrugge lentamente le prerogative della Chiesa. Con il giurisdizionalismo e con l’Illuminismo, il processo giunge a compimento: cadono anche i veli esteriori, e la proclamata separazione tra sfera civile e sfera religiosa significa, né più né meno, la privatizzazione del fatto religioso e quindi anche del matrimonio religioso. La cerimonia si sdoppia in un rito civile e in un rito religioso; poi, lentamente ma irresistibilmente, il secondo comincia ad essere soppiantato dal primo, o – il che è lo stesso – viene a perdere le sue caratteristiche profonde e specifiche, spirituali, trascendenti, per divenire una copia del rito civile, conservando solo la vernice superficiale di ciò che era stato un tempo. Il matrimonio religioso, secolarizzandosi, perde non solo il suo prestigio, ma anche la sua funzione e la sua ragion d’essere: si riduce allo sfarzo di un giorno, di un’ora; non è più un progetto comune che l’uomo e la donna si impegnano a portare avanti sino alla fine della loro vita, nella buona e nella cattiva sorte. E non è più una promessa fatta davanti a Dio, ma un’occasione di mondanità e un omaggio formale al conformismo e al quieto vivere. Oggi il matrimonio cristiano è ormai quasi scomparso, e, con esso, anche la famiglia è andata profondamente in crisi; ma - sorpresa per i laicisti convinti di esser giunti a coronare i loro sforzi secolari - ecco che anche il matrimonio civile, nel medesimo tempo, sembra aver subito lo stesso logoramento, però in un tempo enormemente più breve. Ora che pochi si sposano in chiesa, e non più con lo spirito religioso d’un tempo (prova ne siano le coppie che si sposano dopo anni di convivenza, e con la sposa in abito bianco, simbolo di purezza, come una vergine), sono ancor meno quelli che decidono di sposarsi in municipio. Sposarsi, e perché mai? Perché sobbarcarsi gli oneri e i sacrifici di una promessa di lunga durata, quando la maggioranza delle persone ha ormai scelto il modello della libera convivenza, ossia delle cosiddette unioni di fatto? Niente promesse, niente impegni, niente figli, a meno che se ne senta il desiderio, magari più tardi, magari quando i genitori sarebbero in età di fare i nonni: la famiglia non è più costruita sul progetto della procreazione, dell’apertura alla vita che nasce, ma sul contratto stipulato fra due individui interessati a stabilire i rispettivi diritti e a garantirsi il massimo della libertà personale. Non è poi così strano se, in questo quadro culturale e spirituale, non solo le unioni di fatto, ma anche le unioni omosessuali ambiscono a ottenere il riconoscimento giuridico dello Stato, mediante l’assoluta equiparazione al matrimonio, o meglio, ottenendo la qualifica di “matrimonio”, punto e basta. I figli si possono sempre adottare; oppure, nel caso di una coppia lesbica, si possono ottenere con l’ausilio della fecondazione eterologa. Curioso fenomeno, ma strano solo in apparenza: mentre l’uomo e la donna sono sempre più restii a sanzionare la reciproca unione mediante il vincolo matrimoniale, le coppie omosessuali si battono ovunque per ottenere la fine della loro pretesa “discriminazione” e per potersi sposare in municipio, e magari anche in Chiesa – come già avviene in alcuni Paesi del Nord Europa. E mentre le coppie eterosessuali sono sempre più esitanti a fare figli, quelle omosessuali sembrano più che mai impazienti di poterne avere. Tutto questo avviene non come effetto, ma come risultato di una lenta, metodica, paziente e poco vistosa campagna culturale preparatoria, portata avanti, negli ultimi decenni, da centinaia e migliaia di film, di romanzi, di concerti, di inchieste, dibattiti, tavole rotonde, salotti televisivi e notizie di cronaca abilmente sfruttate, manipolate, gonfiate o sgonfiate secondo le circostanze, così da creare nell’opinione pubblica l’impressione che vi sia una “emergenza omofoba” e che, per contrastare la persecuzione degli omosessuali, sia indispensabile, nonché urgentissimo, riconoscere loro tutti i diritti del caso, compreso quello di sposarsi e avere o adottare dei figli. Frotte di volonterosi psicologi e psichiatri ci hanno spiegato, dall’alto del loro discutibile sapere, magari dalle colonne di qualche rivista modaiola, che non c’è alcuna differenza sostanziale fra sposarsi con una persona dell’altro sesso, oppure del proprio; che chi la pensa diversamente è un razzista, un sessista, un incorreggibile reazionario; che i bambini crescono altrettanto bene, altrettanto equilibrati e sereni, in un contesto familiare eterosessuale, così come in uno omosessuale; e che gli eventuali complessi o anche solo i disagi, cui sarebbero esposti nel secondo caso, sono soltanto e unicamente il frutto delle nostre paure e dei nostri assurdi e incivili pregiudizi. Di più: in diversi Paesi d’Europa si è deciso, per non offendere la sensibilità dei bambini che vivono con genitori omosessuali, che gli educatori non devono più adoperare l’espressione “bambino” o “bambina”, anzi, non devono proprio adoperare il pronome “lo” o il pronome “la”, riferito ai propri compagni di scuola o d’asilo, ma il neutro. Tutto questo è stato votato e approvato già da alcuni Parlamenti ed è stato presentato all’opinione pubblica come una battaglia di civiltà, incoraggiando nei giovani l’idea che il matrimonio è, semplicemente, la sanzione del legame affettivo che unisce due persone, indipendentemente dal genere sessuale. Tanto, si dice, l’importante è che ci sia l’amore: purché ci sia l’amore, il fatto che a sposarsi siano un uomo e una donna, oppure due uomini o, ancora, due donne, diventa del tutto ininfluente; e lo stesso vale per l’eventuale adozione di figli. Eppure è evidente, se appena si vi pone un minimo di attenzione, che dietro queste pretese “battaglie di civiltà”, e dietro l’apparente ragionevolezza e l’apparente minimalismo di codesti paladini dei “diritti civili”, si cela un progetto di vasta portata, mirante a scardinare il principale puntello della nostra civiltà: la famiglia fondata sul matrimonio e formata da un uomo, una donna e, potenzialmente, dalla prole da essi generata. Infatti, nel matrimonio la posta in gioco è molto più alta di quel che potrebbe apparire di primo acchito, e cioè – come osserva il filosofo Francesco Botturi - l’idea antropologica che qualifica una intera civiltà, la nostra. Ed è altrettanto evidente, aggiungiamo noi, che tale consapevolezza si va offuscando, al punto che molte persone, apparentemente in buona fede, reclamano la fine del “matrimonio tradizionale” in nome di un matrimonio più “aperto”, più “libero”, più “moderno”: un sedicente matrimonio nel quale la nozioni di impegno, di fedeltà, di durata, di assunzione di responsabilità, tendono a passare del tutto in secondo piano, lasciando il posto alla pretesa del massimo vantaggio personale, della massima libertà individuale, del massimo esercizio dei diritti. Esso diventa, così, il luogo istituzionalizzato in cui riceve una sanzione definitiva quell’individualismo egoistico e calcolatore che già in pensatori come John Locke aveva trovato la sua consacrazione filosofica. In questa prospettiva, la società cessa di essere una rete armoniosa di soggetti fondati, a loro volta, su quella società in miniatura, essenziale e insostituibile, che è la famiglia: luogo di affetti, ma anche di maturazione, di educazione ai valori, di preparazione alle responsabilità della vita adulta; e diventa, sempre più – almeno nella propaganda di questi chiassosi paladini dei “nuovi diritti” – la quintessenza e la somma di due egoismi che si studiano a vicenda, si delimitano, si riconoscono e si accordano per ricevere il minimo del disturbo l’uno dal’altro, e il massimo del vantaggio quanto all’esercizio sfrenato della libertà personale, intesa non come libertà di perseguire il bene – quello proprio e quello altrui -, ma come inesausta rincorsa del piacere. Il matrimonio diventa così peggio di una finzione: diventa la contraffazione di quel che esso è realmente, la caricatura orribilmente deformata di ciò che, per secoli e secoli, ha rappresentato per la nostra civiltà; diventa la consacrazione ufficiale dell’edonismo e del narcisismo eretti a sistema e il riconoscimento che nulla vi si deve opporre, in nome di un relativismo etico che si basa sul «perché no?». Un matrimonio, che sia ufficialmente riconosciuto come tale, fra due persone del medesimo sesso: perché no? Un figlio a sessant’anni: perché no? Un bambino adottato da due uomini o da due donne: perché no? Cosa c’è di male? Se esiste l’amore, perché bisognerebbe impedire a queste persone di cercare la felicità? In nome di quale diritto, di quale dovere? Se la vita non è che la ricerca del piacere e se la società e lo Stato ad altro non servono che a garantire tale diritto, mediante una meticolosa e capillare casistica giuridica, si può forse sostenere che tali conseguenze non siano perfettamente coerenti con le premesse? Evidentemente no. Dunque, bisogna avere il coraggio di guardare dritto al cuore del problema, e non lasciarsi distrarre da aspetti del tutto secondari. Per esempio, bisogna avere l’onestà di riconoscere che una cosa è il riconoscimento del diritto alla ricerca della felicità individuale; altra cosa è affermare che questa è l’unica cosa che conta e che tutti gli altri scopi e valori, specialmente di ordine collettivo, devono esserle subordinati. Il relativismo etico si è affermato sfruttando il senso di colpa nei confronti di taluni eccessi di severità da parte della società d’un tempo.
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